“Don Filippo Ascarelli” di Emilio De Paola

Don Filippo Ascarelli

di Emilio De Paola
(tratto da: I Luoghi della Memoria, racconti brevi dal vero. Edizioni Pubblisfera)

Quella sera aveva mangiato forte il commendatore Don Filippo Ascarelli in casa di Don Giovanni De Palma, facoltoso commerciante del paese. Ascarelli, grossista di tessuti in Napoli, era sceso in Calabria per visitare i suoi clienti più importanti e questi approfittavano per ospitarlo, anche perchè un ospite così altolocato non lo si poteva mandare alla locanda.

Don Giovanni e Don Filippo si conoscevano da lungo tempo, perchè a Napoli si incontravano il minimo due volte l’anno, in autunno e a primavera, quando Don Giovanni andava a rifornire il suo negozio che era sempre più accorsato. A Napoli Don Giovanni portava spesso sua moglie Donna Mariuzza e lì erano ospiti degli Ascarelli. Una amicizia consolidata nel tempo, che se pure era nata sul piano degli affari, ora aveva assunto caratteristiche quasi familiari.La cena quella volta era davvero straordinaria e particolarmente ricca, perchè si era atteso appunto il grande amico per fare le “frittule” che in paese erano un vero e proprio rito radicato in tutte le famiglie. Si trattava della festa del maiale e le “frittule” erano il coronamento di una settimana di gran lavoro durante la quale si erano fatte le salsiccie, le sopressate, i prosciutti e tutte le altre tradizionali carni conservate che dovevano servire per il lungo inverno silano, quando la neve isolava il paese per lunghi mesi.

Le “frittule” (pancette, costatelle, frattaglie, ossi, grassi, musi, code, orecchie, piedi, cotenne) si mettevano a bollire in un grande calderone (quarara) di rame per molte ore, fino a quando il tutto diventava un insieme denso e oleoso. Ciò che rimaneva intatto e non si liquefaceva durante la lunga bollitura erano appunto le “frittule” che intanto avevano acquistato, bollite nel grasso, con tutti gli odori un prelibato sapore. Quando tutto questo ben di Dio si portava a tavola in grandi zuppiere di terraglia, per i commensali iniziava la festa del palato che sarebbe terminata dopo ore e ore di continuo ingurgitare, accompagnato da scorrevoli libagioni. Naturalmente, non si mangiava solo “frittule”, esse erano quasi un antipasto, perchè dopo seguivano i maccheroni al ragù fatti in casa con le polpette, la “fragaglia” (il sottospalla del maiale) arrostita, il capretto allo spiedo, le polpette avvolte nelle foglie di verza e per finire il formaggio pecorino di sei mesi umoroso e piccante, per non contare i peperoni e le melanzane sotto aceto, i pomodori secchi e salati, le ulive verdi e nere alla calce o infornate, i rositi arrostiti o in umido. E poi il dolce sangiovannese per eccellenza, la pitta ‘mpigliata, accompagnata da “durdilli” e “scalille”. E dopo, i cesti di frutta ripieni di mele “schiacciatelle”, di pere spadoni, di fichi a crocetta, di noci e di castagne mantenute fresche sotto terra.Le donne di casa erano state messe a dura prova per quella cena.

Non c’erano casseruole, padelle, tegami di rame della batteria posta alla parete sopra il focolare che quel giorno non fossero state usate per le innumerevoli pietanze di quella tavola delle grandi occasioni. Lascio immaginare in quali condizioni si trovasse Don Filippo Ascarelli dopo quattro/cinque ore di quella seduta pantagruelica nel corso della quale, tra un bicchiere e l’altro, aveva fatto onore a tutte le portate. E fu a questo punto che la cosa si complicò.

Don Giovanni, che godeva fama di compagnone e di burlone, aveva meditato un brutto scherzo da fare al caro amico. Si alzò e disse: Ora caro Don Filippo, come vuole la tradizione, a fine pasto l’ospite deve bere una scodella di quel grasso che sta bollendo in quel calderone sul fuoco. Ed intanto, proprio la padrona di casa, Donna Mariuzza, pose davanti al posto del malcapitato una fumante scodella di grasso di circa un litro da cui proveniva un effluvio così disgustante che il povero Don Filippo – pieno com’era – ebbe un cenno di vomito maltrattenuto, ma che ricacciò energicamente in gola rosso dalla vergogna di sfigurare lui, signore napoletano, in un convivio in suo onore. Appena un pò ripresosi implorò l’amico di risparmiargli quella crudele tradizione e lo esortò: “Don Giuvà, vuje me vulite fa murì?” Ma non ci fu niente da fare, Don Giovanni fu irremovibile e volle andare fino in fondo al terribile scherzo. “Don Filì, non posso farci niente, è una vecchia usanza del paese e se l’ospite non beve il grasso fino in fondo, ciò porta male alla mia famiglia e questo voi certamente non lo volete.” Don filippo impallidì d’un tratto, capiva che non poteva fare un torto all’amico e non voleva prendersi la responsabilità di provocare una jattura, perchè lui da buon napoletano credeva fortemente nel “malagurio”. Deglutì due o tre volte per prepararsi all’immolazione ed avvicinò con le due mani la scodella calda alle labbra, ma si fermò subito; una smorfia di repulsione si formò sul suo viso pallido come la cera; Ma bisognava andare avanti, assolutamente. si fece forza, puntò forte i gomiti sul tavolo, strinse gli occhi per non guardare e, con un gesto lento come la speranza, appoggiò il recipiente maledetto alla bocca, pronto a mandar giù il primo disgustoso sorso.

Ma in quel momento il miracolo; Don Giovanni che aveva seguito la scena senza lasciarsi sfuggire il minimo particolare, afferrò la scodella e gliela tolse di bocca riponendola. Tutti i commensali, fino a quel punto muti, batterono le mani, lo scherzo era finito. Don Filippo aprì gli occhi, mentre l’amico gli sussurrava all’orecchio: è stato uno scherzo, è stato uno scherzo e tutti gli altri a dire anche loro: è stato uno scherzo, è stato uno scherzo.Ci mise un bel pò Don Filippo a riprendersi, quasi non credesse di essere stato graziato. Sì, si disse sommessamente, in fondo è stato uno scherzo veramente originale, ma negli occhi si leggeva ancora lo sbigottimento.

Di ritorno a Napoli, per molte notti Don Filippo Ascarelli, milionario ebreo del tessuto, ebbe continui incubi; gli appariva in sogno quel gran pentolone sul fuoco nel quale bolliva quella sugna bianca; ne vedeva le bollicine che galleggiavano e ne sentiva persino il gorgoglio: glò,glò,glò,glò e, incredibile, ne percepiva anche il tremendo sapore.

 

Emilio De Paola, è nato tanto tempo fa a San Giovanni in Fiore. Da sempre scrive su giornali locali; è felice di vivere la sua sangiovannesità nel suo meraviglioso paese.

Ringraziamo Emilio De Paola per averci concesso la pubblicazione di questi lavori.

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